CORBOZ, ANDRE.

L'urbanistica del XX secolo: un bilancio*.

En Urbanística 101, 1990.

E inutite sottolineare, suppongo, che è una scommessa trattare in maniera sintetica un simile argomento. L'unico vantaggio è che ciò obbliga ad essere essenziali. La leggibilità di certi fenomeni dipende del resto dal livello at quale si trattano. Ritengo poi necessarie tre osservazioni preliminari.

1) La nozione di secolo non ha un valore intrinseco. Il XIX secoto inizia nel 1789 e tennina nel 1914. Ne consegue che gli avvenimenti del 1989-91 saranno forse considerati come quelli che hanno segnato il vero inizio del XXI secolo. È possibile che il XX secolo si prolunghi nel XXI sino a quando avvenimenti ancora più radicali di quelli che abbiamo appena vissuto non conferiscano una svolta ancora più decisiva.

Per quanto riguarda la disciplina di cui ci interessiamo, il testo basilare risale al 1859, anno nel quale il catalano Ildefonso Cerdà redige la sua Teoría general dela costrucción de las ciudades: il XX secoto dell'urbanistica nasce a Barcelona con otto lustri d'anticipo su calendario.

2) Studiando I'urbanistica del XX secoto, ci si rende conto che la sua suddivisione in periodi è indipendente da quella politica, ma anche di aver a che fare con due fenomeni tanto distinti quanto legati: da un lato I'urbanistica com'è praticata, dall'altro I'urbanistica com'è teorizzata. C'è una differenza fra questi due piani di realtà. La città del geografo urbano differisce considerevolmente, in effetti, da quella dello, storico delle idee sulla città.

Inoltre, secondo i continenti, i paesi, le regioni, il quadro generale necessita di forti sfumature. Ma mi atterrò all'Europa, quella della casa comune - mi piacerebbe poter dire: quella della città comune.

3) Per semplificare I'esposizione, mi atterrò alle grandi linee ed alle proposte principali, e mi soffermerò sull'emergere successivo delle nuove idee e non sulle resistenze che queste hanno incontrato o sul permanere di tale e tal'altra pratica amministrativa o tecnica. Queste te premesse.

Per riassumere in una parola I'urbanistica del XX secolo, bisogna precisare innanzitutto che essa è dominata da una idea-guida, il concetto di pianificazione. E quali che siano i contenuti di questo concetto, che variano evidentemente molto se esso è trattato dal l'amministrazione Roosevelt (penso alla Tennessee Valley Authority degli anni '30) o dalla dittatura staliniana, quali che siano dunque i mezzi ai quali la pianificazione ricorre, essa mira sempre alla distribuzione ottimale delle persone, dei beni e dei servizi su un dato territorio.

Sono i criteri di questa distribuzione che variano, in funzione dell'ideologia politica che li mette in opera.

Da questa definizione molto ampia di pianificazione, si evince che inizialmente si tratta di un atto di natura socio-economica. La realizzazione degli intenti passa poi per una fase concreta, che disporrà nel territorio delle costruzioni e degli spazi al fine di rendere questi intenti operanti; bisogna quindi distinguere la pianificazione dal design urbano - almeno fino a poco tempo fa, in quanto le cose si sono complicate in quest'ultimo decennio.

Se l'idea di pianificazione è emersa, e si è poi imposta, non è per capriccio di qualche intellettuale, ma è in risposta ad una situazione diventata insostenibile. Sotto l'influenza di una moltitudine di fattori, fra i quali i tre più importanti sono l'urbanizzazione massiccia, l'industrializzazione e la rivoluzione dei trasporti, le città sono esplose, si sono espanse nelle campagne circostanti, hanno oltrepassato i loro antichi limiti amministrativi e soprattutto sono cresciute nella più totale anarchia.Questa crescita caotica fu giudicata inizialmente - nella prima metà dei XIX secolo - come un segno di salute, in seguito come una malattia grave e socialmente costosa. La seconda metà dei secolo vede spuntare diverse teorie che troveranno una foro applicazione all'inizio del nostro secolo e che si presentano tutte come soluzioni tanto globali quanto universali. Tralasciando l'enumerazione delle tesi, alcune delle quali strampalate, preferisco tentare uno schizzo in quattro fasi di come questa grande idea di pianificazione, vale a dire dei governo dello sviluppo urbano e territoriale, si sia concretizzata.

Il criterio di questa periodizzazione è quello dei luogo dell'intervento.

Il secolo inizia con il successo prodigioso di un concetto innovativo, quello della cittàgiardino, che si sviluppa dal 1900 al 1930 circa. Esso si fonda sull'ipotesi che sia possibile combinare i vantaggi della città con quelli della campagna, eliminandone gli inconvenienti; la nozione è inglese (Ebenezer Howard, Tomorrow: a Peaceful Path to Real Reform, 1898), mentre la sua realizzazione prende molto in prestito da un autore austriaco (Camillo Sitte, Der Stádtebau nach seinen künstlerischen Grundsätzen, 1889).

Ambedue hanno in comune la certezza che la città medievale, in particolare quella dell'epoca dei comuni, offra insieme l'ideale dell'armonia comunitaria e civica e quello della struttura urbana irregolare atta a diversificare il tessuto delle strade e delle piazze. Questa visione dei medioevo è sommaria e ingenua. anche se lo è sempre meno dell'intento dei protagonisti: essi credono che le città-giardino rimpiazzeranno ben presto le città esistenti, delle quali non si occupano minimamente.

Il luogo dell'intervento non riguarda quindi la città. Abbiamo a che fare con un'urbanistica accanto alla città o fuori della città. La generazione di urbanisti della cittàgiardino è sostituita da quella, ben più radicale, che fonda nel 1928 i Ciam, cioè i Congressi internazionali d'architettura moderna. Questo gruppo eterogeneo, ma combattivo e dottrinario, rifiuta i termini del problema così come era stato sino ad allora posto. Propone un'unica via e senza compromessi: sostituire la città esistente con una città "razionale". Di fronte all'enorme complessità dei fenomeni urbani, gli uomini del Ciam procedono ad una riduzione impietosa dei numero dei parametri che determinano l'area edificata.

La loro riduzione riconosce un solo criterio di razionalità, la funzione - e la funzione intesa in senso utilitario. Un documento tardivo, la Charte dAthènes (versione Le Corbusier, 1943), afferma che la città è costituita soltanto da quattro funzioni: "abitare/lavorare/ricreare il corpo e la mente/circolare". Ad ogni funzione il suo settore urbano, con l'eccezione della circolazione, dato che era purtroppo impossibile sistemare le automobili in un solo posto: è il famoso principio della segregazione delle funzioni. Certo, la Charte non rappresenta tutto il pensiero dei Ciam, questo è vero. Ma è perfettamente emblematica della sua visione estremista e dei suo spirito giacobino.

Da queste idee sono nati tutti i quartieri, tutte le città-satellite, tutte le ricostruzioni nelle quali la nuova sostanza urbana è costituita unicamente da edifici in linea ed edifici a torre immersi in uno spazio troppo vasto. La reazione alla via-corridoio è sfociata in una specie di decomposizione della città nel verde o in un ambiente aperto da tutti i lati, di cui Brasilia rappresenta tutto l'insieme e l'apoteosi ed il punto d'arrivo a partire dal 1960.

Questa seconda fase è quella dell'urbanistica contro la città.

Ciò che accade in seguito è più difficile da cogliere, poiché proviene da una serie di reazioni successive e non coordinate alle tesi dominanti e alle pratiche amministrative, e quindi perché eterogeneo.

In questa fase non vi è alcun "testofondatore" vero e proprio a meno che non si voglia considerare tale l'opera che Aldo Rossi pubblicò nel 1966, L'architettura della città. In compenso, l'abbandono delle tesi del Ciam - dovuto anche ad un conflitto di generazioni - presenta dei tratti comuni nei diversi gruppi:

a) rifiuto dei grado zero della città, quindi della politica della tabula rasa;

b) corollario necessario: riabilitazione della dimensione storica (l'esperienza della seconda guerra mondiale aveva dimostrato come la città non fosse un oggetto manipolabile a proprio piacere, ma un insieme carico di senso). D'altro canto, il rinnovo di interi quartieri iniziato verso il 1950 in diversi paesi ha implicato più distruzione della sostanza storica dei conflitto stesso;

c) la separazione assoluta delle funzioni porta all'assurdo: bisogna dunque tornare ad una loro combinazione, anche se il nuovo dosaggio differisce molto dall'antico (non si tratta più di contrapporre industria pesante e abitazione);

d) la nozione stessa di funzione si arricchisce e diversifica: si vuole qualitativa e non più strettamente utilitaria (lŽatto di abitare non è riducibile ad un insieme definito di operazioni quotidiane, esso è in primo luogo un atto culturale);

e) in ultimo, anche il repertorio formale si diversifica: fra le vie-corridoio e la città esplosa c'è una miriade di soluzioni intermedie da esplorare.

Il famoso post-modernismo si inscrive in questa terza fase, che è, né più né meno, quella dell'urbanistica nella città. È difficile assegnarle una data di morte. in particolare perché la quarta fase che credo di intravedere è appena iniziata e solo un piccolo numero di persone se n'è accorto sino ad ora.

Essa è ancora più difficile da descrivere della precedente, in primo luogo perché ci manca la distanza dai fatti, secondariamente perché non è stata ancora formulata in un "testofondatore" e soprattutto, io credo, perché assume un cambiamento di scala dei fenomeni considerati e implica di conseguenza niente di meno che una rivoluzione nella nostra rappresentazione della città.

Ecco, in due parole, di cosa si tratta: mentre gli attori della seconda e terza fase portavano la loro attenzione sulla città storica - i primi per ricostruirla da cima a fondo, i secondi per intervenire nel valorizzarla - trascuravano ciò che accadeva all'esterno.

Ora, le città non fanno altro che concentrare la popolazione (urbanizzata più o meno al 70% in Europa occidentale), esse tendono a divenire reciprocamente limitrofe, si saldano le une con le altre in vasti insiemi che coprono a poco a poco i territori ed incontrano, al di là delle frontiere nazionali, altri insiemi urbanizzati. Non ci sono più "città" in senso proprio, ci sono regioni urbanizzate che si organizzano a catena, ci sono megalopoli che occupano superfici sempre crescenti. Ben presto, l'Europa non sarà che una sola nebulosa urbana. In questa nebulosa, ciò che noi chiamiamo il centro-città, i vecchi quartieri, la città storica, non occupano che il 2 o 3% della superficie totale. È quindi necessario, assolutamente necessario, inventare una nuova problematica d'insieme.

La prima constatazione che si impone è che la vecchia opposizione fra città e campagna non ha più senso; il che non significa che l'agricoltura (che occupa non più dei 5% della popolazione attiva) cesserà di esistere, ma che subirà (e già subisce) un mutamento decisivo, vale a dire che i contadini in quanto tali spariranno, a favore di una gestione tecnocratica delle risorse. Le superfici coltivate saranno all'interno della nebulosa urbana, che conterrà anche foreste, montagne e laghi.

Poiché le città non si sono accontentate di espandersi attorno al loro nucleo, esse sono sciamate per occupare luoghi giudicati inabitabili prima dei XIX secolo: sono loro che hanno colonizzato le coste e provocato un'invasione di cemento, che hanno impiantato stazioni di sport invernali de estivi in luoghi sino ad allora deserti, sono sempre loro che cominciano a divorare l'entroterra quando le zone costiere sono sature - e tutto questo per qualche settimana di occupazione all'anno.

Quest'opera ha luogo grazie e tramite la popolazione urbana che sviluppa inoltre reti di trasporto necessarie a questa migrazione stagionale - reti lungo le quali si installano a loro volta servizi, unità produttive, centri decisionali.

E non è tutto. La nuova problematica debe prendere in carico altri fenomeni ancora. Gli stessi centri storici subiscono le conseguenze della notevole espansione periferica delle città. Anche se appaiono ben conservati nella loro sostanza architettonica, stanno perdendo la loro funzionalità. Le stesse misure che miravano a conservarli hanno giocato contro di loro poiché le funzioni cosiddette centrali che esercitavano i quartieri storici ancora sino alla seconda guerra mondiale vi si sono trovate troppo strette. Queste funzioni direzionali, pubbliche e private, si sono trapiantate in periferia, secondo il capriccio degli edifici o dei terreni disponibili. È paradossale doverlo constatare, ma ciò che i geografi definiscono luoghi centrali è caratterizzato oramai da un duplice tratto distintivo: non sono più luoghi e non si trovano più al centro.

Non si trovano più al centro poiché la nozione di centro tende essa stessa a sfumare, tranne, forse, nelle capitali. E non sono più luoghi, dal momento che la loro localizzazione li situa più spesso su superfici di nuova costruzione, secondo criteri di puro rendimento, sicché sono, dal punto di vista dello spazio, non ben caratterizzati e di conseguenza incapaci di caricarsi di connotazioni simboliche.

Ho spesso utilizzato il termine periferia, ma questo stesso termine sta diventando improprio: perché se gli antichi centri hanno perso la loro funzione centrale, ne consegue che la nozione di periferia si svuota dei suo significato. Ben presto potremo dire - ed è già il caso degli Stati Uniti - che la vera città è il suburbio.

A questo mutamento quantitativo, cioè l'estensione della città nell'intero territorio, corrisponde un mutamento qualitativo: il modo di vivere urbano, il sistema dei valori e dei non valori urbani s'impongono dappertutto attraverso i media e soprattutto attraverso la TV. Ciò che ancora restava di tradizionale, arcaico, nelle pianure agricole e nelle valli montane sta lasciando posto a modelli di comportamento omogenei. Se avessi spazio, tenterei di spiegare perché i vecchi comportamenti urbani spariscono a favore di modelli che si devono definire da megalopoli.

In breve, la quarta fase sarà quella della città-territorio, quella dell'urbanistica del territorio urbanizzato nella sua totalità.

E nel momento in cui il compito appare infinitamente più complesso che nelle fasi precedenti, in cui gli strumenti di intervento, gli obiettivi stessi restano da inventare, ci

troviamo in piena crisi della pianificazione.

L'idea-forza che ha guidato il pensiero di tutto un secolo sembra esaurita. Ciò si verifica sia ad Est (inutile spiegare perché, suppongo) sia ad Ovest, dove l'assalto contro lo Stato continua a perpetrarsi in nome della dérégulation che porta al disastro, Sconfitta della pianificazione, tristezza dei pianificatori, in particolare perché gli speculatori se ne sono serviti per raggiungere i loro obiettivi. Bilancio negativo, quindi, tale da rischiare ancora una volta che venga gettato il bambino con l'acqua sporca.

Per uscire dall'impasse - poiché non si tratta di alimentare l'anarchia e la confusione - dobbiamo procedere ad una rivoluzione copernicana. Per concludere, cercherò di esporne le linee principali.

Il punto dal quale è importante partire è la nostra rappresentazione spontanea della città, di noi Europei. Possiamo articolarla, senza grossi rischi di sbagliare, in tre punti:

a) la città è un artefatto collettivo che si contrappone alla campagna, alla montagna, come ad un'estensione molto più vasta, scarsamente abitata, dove si pratica una attività primaria tipica, l'agricoltura (o la pastorizia);

b) l'artefatto stesso è dotato di una forte coesione architettonica. Nella città degna di questo nome regna il duplice principio dell'ordine contiguo delle costruzioni e quello dell'unità della forma. Le eccezioni a questo principio sono riservate ai luoghi simbolici, sacri o civili: cattedrali, comuni;

c) la città artefatta esercita le funzioni di centro - centro politico (per un dato territorio), centro economico (scambio e produzione di beni, piazza finanziaria), centro culturale (grandi scuole, musei, biblioteche, conservatori, teatri, ecc.).

Abbiamo appena visto che questa rappresentazione è diventata pateticamente anacronistica.

E come percepiamo la "periferia"? Essa ci esaspera, perché non ne cogliamo la eventuale logica e la rifiutiamo come un caos visivo. La periferia è lo scandalo dei disordine. mentre la città - la vecchia città - è la gioia dell'armonia. E qui sta il guaio: esiste per noi come un'evidenza viscerale, come un dato di fatto: la città deve essere armonica, quindi priva di dissonanze, in una parola omogenea. La rivoluzione industriale ha rovinato tutto, ha profondamente alterato l'immagine della città idealizzata. Pensarla in questo modo significa rifiutare la modernità, qualunque sia la definizione che di essa si vuoi dare - senza contare che la città medioevale o dei vecchio regime era lontana dal possedere le caratteristiche che le attribuiamo spontaneamente.

La megalopoli che si sviluppa sotto i nostri occhi non ha niente a che vedere con una qualunque estetica dell'armonia (sia che sia presa a prestito dall'antichità attraverso il Rinascimento o dal Medioevo attraverso il Romanticismo). Essa risponde molto di più alla definizione della bontà secondo Lautréamont - «bello come l'incontro fortuito di una macchina da cucire e di un ombrello su di un tavolo d'autopsia». 0, se preferite, la megalopoli non è più caotica di un'opera di Beuys, assemblaggio a prima vista eteroclito di oggetti incompatibili o ancora - se ci si riferisce all'intero territorio - la megalopoli ha molto in comune con la tecnica dei all over di un Pollock, tanto per restare nei grandi esempi. In breve, noi possiamo forse familiarizzare con il supposto caos visuale attraverso alcune delle manifestazioni più forti dell'arte contemporanea, come pure con un John Cage, o con un Frank Ghery, poiché - disse Paul Klee - «d'arte non mostra il visibile, rende visibile».

Ma è importante formulare lo stesso approccio in modo meno metaforico: abbiamo bisogno di elaborare con urgenza una nozione di «città» come luogo della discontinuità, della eterogeneità, della frammentazione e della trasformazione ininterrotta. Invece di spiegare i fenomeni urbani in termini implicitamente progressisti, ossia teologici, bisogna considerare le forze che agiscono nella città come derive, in altri termini come invariabilmente refrattarie da ogni progetto e disfacentesi nel movimento stesso che le produce. A partire dalla rivoluzione industriale, tutto può essere analizzato in termini di distanza. Se poniamo il problema in termini di dissoluzione urbana, rischiamo la mistificazione pura e semplice - e certamente l'inefficacia.

Ma non è ancora tutto. Ho appena criticato l'idea d'armonia che sottintende la nostra concezione spontanea di città. Bisogna adesso cercare di esprimere questa nuova percezione della realtà urbana in termini che siano applicabili alla pianificazione e da essa utilizzabili. Che cosa c'era di comune fra i diversi modi di porre il problema che distinguono fra di loro le tre prime fasi - ed in particolare la seconda culminante con la Carta d'Atene? É l'idea della razionalizzazione, nel senso di controllo assoluto, vale a dire l'eliminazione dell'imprevisto e l'istituzione di un ordine tanto perfetto quanto definitivo. A mio avviso, la sconfitta della pianificazione, sia in oriente che in occidente, è essenzialmente dovuta a questa visione dei tutto positivista dei mezzi e degli scopi.

Invece di elaborare una strategia, si elaborino dei programmi: l'urbanistica si ispira alla teoria dei giochi, in cui i giocatori decidono senza conoscere tutti i dati del problema, alcuni dei quali determinanti, altri aleatori ed altri ancora non definibili. Non si può ridurre alla realizzazione forzata di una sequenza di azioni predeterminate. Prendo a prestito da Edgar Morin delle riflessioni ch'egli sviluppa in un suo saggio di grande valore intitolato Pour la pensée complexe e che sono costretto a riassumere sino alla caricatura: in questo testo viene spiegato, fra le altre cose, che la razionalizzazione esclude il caso e deve, a questo titolo, essere tacciata di magica e primitiva, mentre la presa in carico dei disordine è un'idea molto più evoluta.

Il compito si rivela particolarmente arduo, in quanto consiste nel concepire simultaneamente l'ordine ed il disordine, che Morin combina nella nozione d'organizzazione. Tutto ciò può apparire terribilmente astratto, ma l'uscita dall'impasse ha senza dubbio questo prezzo Come Morin fa ancora osservare, è «molto difficile concepire un processo che allo stesso tempo "tolleri, produca e combatta" il disordine». Ora, questo processo è esattamente quello dell'urbanistica detta liberale. Bisognerebbe quindi cominciare coi definirne i destinatari.

Potete comprendere perché si può parlare di rivoluzione copernicana m questo campo. Per affrontare i problemi posti dalla nebulosa urbana che ben presto coprirà l'insieme dei continente europeo, è necessario un cambiamento di mentalità radicale e per il momento, da parte dei pianificatori, sarebbe indiscutibilmente esagerato dire - fatte due o tre eccezioni - che questa mentalità si stia formando.

Nota

* Conferenza preparata per un convegno della Société Européenne de Culture a Tiflis, 23-24 settembre 1991, che per le turbolenze politiche in Georgia non ha avuto luogo. Pubblicata coi gentile consenso del Segretario generale internazionale della Sec. Devo la definizione delle prime tre fasi a Alain Léveillé, chargé d'enseignement, Scuola d'architettura dell'Università di Ginevra.